INTERVISTA A MILA BERNAVA: DESIDERARE UNA “PROFESSIONE IMPOSSIBILE”

– Qui di seguito trattiamo della  gestione di una “professione impossibile” come l’insegnamento. Lo facciamo con il contributo di Mila Bernava che ci offre una prospettiva inusuale, a tratti per niente rassicurante, eppure necessaria –

Mila è psicologa ed è impegnata nel coordinamento tecnico-metodologico della Cooperativa Sociale C.R.E.SCO. Svolge attività di formazione, supervisione del personale educativo e progettazione di interventi scolastici nel territorio di Milano e hinterland. Lavora come psicologa presso il Consultorio AltraScena dell’Associazione ICLeS-Istituto per la Clinica dei Legami Sociali e in qualità di Cultore della materia presso la Facoltà di Psicologia – UCSC di Milano. Attualmente è consulente della Parrocchia S. Maria di Lourdes, dove ha avviato un progetto per adolescenti a rischio dispersione scolastica e un laboratorio di scrittura creativa per anziani.

 

Cristiana La Capria

Cara Mila, è un vero piacere per noi averti qui sul nostro blog. La tua professione ti porta a contatto sia con gli studenti e studentesse sia con le docenti, ci diresti in quale modo ciò accade?

 

 

Mila Bernava

Nella mia vita sono stati due gli incontri fortunati. Il primo è stato quello con l’ICLeS, l’Istituto presso cui sto continuando la mia formazione post-universitaria e il secondo quello con la Cooperativa C.R.E.SCO, che ha sempre erogato servizi di assistenza educativa scolastica per alunni affetti da disabilità. Il lavoro con gli studenti inizia così. Nel corso degli anni ho iniziato ad attivare diversi progetti di intervento nelle scuole, per lo più interventi utili a trattare l’emergenza educativa. E’ così che ogni giorno mi interfaccio con studenti e docenti, nell’ottica di riuscire a prendermi cura di quel delicato e ‘nebuloso’ disagio attuale, che nella scuola ha a che fare con un certo dis-orientamento, dis-interesse del sapere/dei saperi.

C. La C.

Quali sono, secondo la tua esperienza, i punti critici degli adolescenti a scuola oggi?

 

 

M.B.

La postmodernità non aiuta: tutto è più veloce, facilmente consumabile e prêt-à-porter. La scuola come un fast food: questa è l’immagine che mi viene in mente. Cito un autore a me molto caro, che descrive bene il soggetto moderno: Z. Bauman parla a più riprese di “liquidità di legami”. Penso che un adolescente a scuola debba fare i conti con la vita, con la propria identità, con le crisi esistenziali che concernono la sfera sessuale. Il problema è la relazione: il rapporto tra docente e studente che riguarda la trasmissione di sapere, da un lato e il desiderio di apprendere, dall’altro.

 

 

C.La C.

E quali sono, invece, i punti forti degli adolescenti in classe?

 

 

M. B.

Dobbiamo essere rincuorati dalle manifestazioni di un certo tipo di malessere che -seppur difficili e complesse da trattare- si fanno portavoce di una domanda, una domanda di cura, una domanda d’amore. In fondo tutti noi passiamo la vita a chiedere questo all’altro. Gli insegnanti e i genitori sono i primi ad accogliere queste domande spesso mal formulate, ma pur sempre domande intelligenti e preziose.

 

 

C. La C.

I docenti lamentano sempre più una condizione di disagio nella loro professione. A cosa è dovuto, soprattutto, questo malessere?

 

 

M. B.

Freud parlava di tre professioni impossibili: ‘educare, governare e curare’. ‘Impossibili’ perché l’investimento di questi professionisti nel lavoro non è mai direttamente proporzionale al guadagno ricavato. Lavori che -se orientati da una certa etica- non si fanno per avere in cambio strani riconoscimenti economici, quanto per un desiderio del tutto enigmatico e particolare. Ecco perché gli insegnanti sono spesso nei miei pensieri e ci tengo molto a lavorare con loro. Negli ultimi anni la macchina delle leggi e della burocrazia ha ‘anestetizzato’ il desiderio dell’insegnante. Desiderio che, dal mio punto vista, c’è ancora e che è in attesa di essere dolcemente risvegliato.

 

 

C. La C.

Durante un corso di formazione per insegnanti da te cogestito mi è parso di grande interesse soprattutto il tema della relazione con gli studenti a cui, secondo te, sarebbe bene che gli insegnanti si rivolgessero usando il “lei”. Perché l’uso della terza persona sarebbe necessario?

 

M. B.

Dipende dalle situazioni. Si può dare del ‘tu’ pensando comunque ad una certa differenza. Se riflettiamo bene, oggi -nonostante i diversi atteggiamenti rivoluzionari- quello che tendiamo a perdere di vista è il valore della differenza. Penso utile il ripristino del ‘lei’, in certi casi, proprio per ridare una certa dignità alle persone, per far sentire una certa adultità e differenza, appunto. ‘Io e te non siamo sullo stesso piano’ e non per una questione di età, quanto per una questione di sostanza. Sono dell’idea che la forma è la sostanza. A volte chiamare un ragazzo per nome potendo usare il ‘lei’ fa sorgere in lui una certa domanda: ‘Perché? Sono davvero così importante?’. La risposta è sì, certamente. E poi sappiamo bene che i ‘perché’ sono quelli che aiutano a crescere.

 

 

C. La C.

Ancora un altro spunto ripreso dal corso che ho seguito: la ricerca della sintonia empatica con gli studenti non è necessariamente una buona cosa da farsi per chi insegna. Perché?

 

 

M. B.

Dirò di più: ora c’è tutta una gran moda dell’empatia. La cosa va bene, ma non è sufficiente. Sfido chiunque a non essere empatico con l’altro. Passiamo gran parte della nostra esistenza a comprendere l’altro, a condividere con l’altro anche un certo ‘sentire’. Quando dico che la cosa però non è sufficiente è perché penso che nella relazione con l’altro ritroviamo la matrice della differenza: siamo tutti umani ma diversi. Quindi dobbiamo capire a cosa serve questa empatia. Suggerirei di essere accoglienti, ma tenendo conto che il disagio/la sofferenza dell’altro non è da comprendere e non è buona cosa mettersi troppo nei suoi panni. Questo provocherebbe una certa confusione che impedisce la cura e il trattamento: ‘ti capisco e soffriamo un po’ insieme’. Davvero non mi convince!

 

 

C. La C.

Ti chiederei di dare a noi docenti un suggerimento che possa essere utile per gestire al meglio la relazione con chi sta dietro i banchi.

 

 

M. B.

Prendersi un tempo in più nella scuola è il vero privilegio, laddove la macchina quasi perfetta della burocrazia non lo permette. Ritagliarsi questo tempo per un confronto con colleghi e professionisti permette una circolazione di parola e rimette in questione alcune credenze. Tempo che non è pagato, ma che ripagherà. Questo tempo è utile per formulare buone domande, che ”salveranno” la scuola e aiuteranno i ragazzi. Se un docente riesce a fare questo ha fatto il suo lavoro e non cadrà facilmente nella tentazione di essere colui che salva e risolve in solitudine una situazione cosiddetta di emergenza. Il docente aiuta lo studente a scegliere, ma non si sostituisce a lui nella scelta. Questo è ciò che accade nel quotidiano e ci richiama ad una certa responsabilità.

 

 

C. La C.

L’ultima domanda riguarda il numero in aumento di acronimi (BES, DSA, ADHD, ecc.) che indicano varie forme di difficoltà o di disturbo di tipo cognitivo e sociale nelle scuole. Il timore è una progressiva medicalizzazione delle reazioni umane. Insomma tutto va siglato e catalogato prima della cura. Quale è la tua posizione a riguardo?

 

 

M. B.

La mia posizione è radicale. Le categorie diagnostiche ci fanno stare più tranquilli e proliferano nel discorso del capitalismo. Torniamo a quello che dicevo prima: siamo sempre inclini a comprendere l’altro. L’unica verità è questa (gli insegnanti lo sanno, perché ne fanno esperienza ogni giorno): non esiste un soggetto DSA uguale ad un altro, un ADHD uguale ad un altro e così via… Le categorie non dicono alcunché delle persone e ad un certo livello possono essere fuorvianti, perché impediscono l’ascolto, l’ascolto affascinante delle storie di vita che si costruiscono grazie ai legami. Se perdiamo di vista questo, annulliamo il soggetto, che per definizione non è oggetto della scienza, ma soggetto che parla. Ragione per la quale preferisco incontrare le persone e ascoltare i loro romanzi familiari.

Cristiana La Capria

Insegna appassionatamente lettere in una scuola secondaria di secondo grado. Si interessa di pedagogia delle differenze e studia il potenziale educativo di cinema e narrativa. Si occupa di formazione degli insegnanti. Scrive saggi e ultimamente testi di narrativa.

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