SOTTO L’EFFETTO DI ZOOM

 

– Il dramma degli incontri ravvicinati –

 

Alzi la mano

Alzi la mano chi non fa zooming almeno una volta al giorno. Chi non lo fa ha una grande fortuna, possiamo dire che si salva la pelle.

Noi altri sfortunati la stiamo perdendo, la pelle. E anche la faccia. Senza scherzi. La situazione è seria. A ricordarlo è l’articolo di Massimo Ammaniti, noto psichiatra, che sul Corriere della Sera dello scorso 26 marzo mette a fuoco gli effetti velenosi delle nuove pratiche virtuali di comunicazione.

L’ansia del primo piano

Fare zooming, ovvero comunicare tramite videochat, da un anno a questa parte ci viene imposto per insegnare, per comunicare con gli amici, per studiare, per fare psicoterapia, per seguire seminari. Ciò che appare sullo schermo è la faccia dell’interlocutore e, in un riquadro più ridotto, la nostra faccia. Dobbiamo quindi fare due fatiche, sostiene Ammaniti: sia reggere una comunicazione che trasgredisce la distanza sociale e ci forza a una vicinanza intima con la faccia di persone che spesso conosciamo a stento, sia controllare nel piccolo riquadro la nostra immagine per verificare di continuo che le nostre espressioni facciali e la postura siano adeguate, siano pertinenti alla situazione.

Incontri troppo ravvicinati

In questa oscillazione artificiosa facciamo come il pendolo che si sposta tra il viso ravvicinato dell’interlocutore e il viso nostro riflesso nello schermo. Che stress. L’interazione perde ogni goccia di spontaneità e forza il cervello a governare forti densità emotive. Siamo gettati nel pieno delle emozioni forti, quelle che qualsiasi regista sa di potere stimolare quando fa un primo piano. Uno zoom, appunto. E dove sta il resto del corpo? Non esiste. Tutto ciò che è fuori campo è anche fuori dalla comunicazione.

Studenti e studentesse in ostaggio

E i giovanissimi come reggono questo artificio? Stanno nella classe virtuale, seduti, per ore, senza muoversi, scaricare la tensione, silenziati davanti a un monitor che espande i dettagli del volto del docente. Non possono prendere le distanze, né voltarsi di lato, né abbassarsi, né sollevarsi. Fermi, ostaggi dentro uno spazio fatto di pixel.

La schizofrenia del corpo

La DAD, diciamolo, ha sfinito noi docenti, ha devitalizzato ogni slancio passionale ma, soprattutto, ha squarciato in due il corpo degli studenti e delle studentesse. Da un anno a questa parte loro vivono il mondo a due dimensioni, appiattito sullo schermo, una realtà privo di tatto, di odori, di pelle. Per sopravvivere dentro questa forma di alienazione – che chiamiamo didattica a distanza, questi giovani vivono il corpo in uno stato di schizofrenia, letteralmente tagliato in due: la parte che sta sopra la scrivania, dal busto in su, è pubblica, si fa vedere, si lascia zoomare per essere controllata, interrogata, per essere illuminata dai riflettori, mentre la parte del corpo che sta  sotto la scrivania, dal busto in giù, resta privata, non vista da nessuno, spesso rimasta in pigiama e in pantofole, in ombra fino alla fine delle lezioni.

La fuga

E allora che fare? Per adesso niente. Ma io sto progettando la fuga verso una forma di comunicazione alternativa e antichissima che si chiama telepatia; se tutti la mettessimo in pratica con convinzione, potremmo comunicare senza stress, senza pixel e senza virus.  Chi mi segue?

 

Cristiana La Capria

 

Cristiana La Capria

Insegna appassionatamente lettere in una scuola secondaria di secondo grado. Si interessa di pedagogia delle differenze e studia il potenziale educativo di cinema e narrativa. Si occupa di formazione degli insegnanti. Scrive saggi e ultimamente testi di narrativa.

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